La costa sud dell’Ecuador: Machala, Puerto Bolivar e Jambelì

Fino ad ora abbiamo viaggiato e vissuto paesaggi disegnati dalle cromie della terra e dalle sue diverse consistenze: le rocce, la polvere delle Ande, la terra umida amazzonica; è giunto il momento di cambiare elemento e visitare la costa.

L’Ecuador è bagnato dall’Oceano Pacifico, che lo è di nome e di fatto, perché è immenso e potente ma placido e tranquillo, una caratteristica insolita agli occhi di noi europei, abituati alla forza dell’Atlantico. Questa è l’area geografica più sviluppata del Paese, le città costiere sono cresciute velocemente, dando luogo a paesaggi urbani di bassa qualità, popolati da edifici di cemento, strade trafficate e aree commerciali. E’ inoltre la zona più produttiva e redditizia di tutto il territorio nazionale, per questo è costellata da porti di media e grande dimensione, imponenti e affascinanti.

All’inizio di questa tappa vorrei proprio portarvi in questo mondo, fatto di uomini che lavorano senza sosta, di terre e di acque che non riposano mai, sto parlando della città di Machala e del porto di Puerto Bolivar, sulla costa meridionale, patria dell’esportazione di banane, e in forma minore del cacao; poi riposeremo i nostri pensieri sulla sabbia dorata dell’isola di Jambeli, un luogo fuori dal tempo ed esente dalla frenesia del commercio e del turismo.

Machala è una città trafficata e calda, ci sono stata nel mese di luglio e nonostante sulla costa sia inverno (l’estate è da gennaio a marzo, con il culmine a febbraio) il calore e l’afa sono davvero intensi, più difficili da affrontare di quelli della regione amazzonica. La città ha poco da offrire. Per una serie di eventi troppo lunga da raccontare qui, mi sono ritrovata su uno degli autobus scoperti della City Sightseeing, protagonista del tour più kitsch a cui abbia mai partecipato. Ad ogni modo se vi dovesse capitare di salire su uno di questi mezzi, fate attenzione alla testa, i cavi elettrici degli edifici sono tutti aerei, inoltre se non volete ballare insieme alla guida che, per rendere il tour più accattivante, vi coinvolgerà in danze e piroette, fingete di non parlare nessuna lingua latina, l’impossibilità di comunicazione vi salverà da scene degne di una commedia.

Se passerete qualche ora in città vi consiglio comunque un giro al mercato, è enorme e troverete davvero di tutto e a prezzi bassissimi (la zona delle carni è da vedere, ma portatevi un fazzoletto per proteggervi dagli odori). Invece per dormire e mangiare meglio recarsi a Puerto Bolivar, a una decina di chilometri dal centro di Machala, proprio sulla costa. Il paese è squallido e poco curato, le strade sono percorse da cani randagi e volti poco rassicuranti, ma è solo un’impressione perché si tratta di una zona sicura, è il quartiere dove vivono gli operai del porto e le loro famiglie, aspetto non trascurabile perché è qui che si concentrano i migliori ristoranti di pesce della provincia, con piatti dai prezzi davvero modici. Sulle tavole spadroneggiano gamberi e molluschi e il piatto che dovrete assolutamente provare è il ceviche: pesce crudo (di qualsiasi tipo) marinato nel limone e nelle spezie. Anche i fritti di gamberi e calamari sono una buona opzione, così come i grossi pesci grigliati (attenzione però perché spesso anche se passano dalla griglia vengono prima fritti o impanati).

Tra i ristoranti consiglio il Restaurant Sarita y Su Pescado Saltarin sull’Avenida Municipalidad e il Bar Restaurant Pepe’s, sul lungomare. Per dormire troverete qualche semplice albergo nelle due vie parallele al lungo mare; sono strutture relativamente recenti anche se dal gusto un po’ vecchiotto. Insomma, dovrete accontentarvi.

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Sono arrivata a Puerto Bolivar una sera, di luglio, dopo un lungo viaggio in automobile. Partita da Riobamba, attraversai e percorsi le Ande, passando poi per Alausì, fino a scendere finalmente sulla costa. Non ho mai visto così tanta diversità di paesaggi, climi, abbigliamento e volti in poche ore. La cosa che più mi colpì fu senza dubbio il caldo della costa, l’orizzontalità del paesaggio e la sua monotonia.

Appena si entra nella provincia di El Oro ci si trova immersi in filari di piante di cacao ma soprattutto di banani. La disposizione ordinata delle piante crea dei muri verdi e blu che fiancheggiano le strade. Il verde è quello dalle grandi foglie e dei frutti (raccolti acerbi) e il blu quello dei sacchetti di plastica in cui sono avvolti i caschi, per preservarli dalle imperfezioni della natura, e che quando vengono svuotati del loro contenuto rimangono a terra, creando un mosaico di plastica soffocante.

piantagione banane Ecuador
Foto di Chiara Sonzogni

Ho avuto la possibilità di visitare una di queste piantagioni di banane, se ne avrete l’occasione fatelo, provate a rivolgervi a qualche agenzia di viaggio di Machala. Le piantagioni sono delle vere e proprie macchine, organizzatissime, con alte prestazioni di produttività, di contro sono inquinanti, invasive e artificiali. Vederle mi è servito per riflettere sull’assurdità del nostro sistema economico.

Vediamo nel dettaglio. Le palme da frutto sono organizzate in filari, dotati di binario, con cavi che scorrono fino all’ingresso della piantagione, così i caschi di banane vengono raccolti, appesi e trasportati con facilità. Quando arriva un carico di banane, se ne controlla il peso, e si tolgono i sacchi di plastica blu (gettati poi in mucchi o a terra); poi si verifica la qualità della banana, per ben tre volte e da sei persone diverse, in base alla qualità si decide a quale dei grandi distributori destinarle. Se ne valuta il colore, la perfezione della buccia, la dimensione. Il colore deve essere verde perché le banane viaggiano per decine di giorni e solo una volta giunte a destinazione vedranno il sole e potranno maturare, non troppo in fretta, ma nemmeno troppo lentamente; la buccia non deve presentare tagli, macchie, segni, dimenticando la buona regola che se un frutto viene mangiato da un insetto vuol dire che è buono, non è contaminato, è sano; la dimensione deve essere da manuale. Dopo questa severa valutazione le banane vengono lavate e disinfettate per eliminare ogni traccia di vita.

“Scusi, il disinfettante disciolto in acqua, dove va?”
“Al mare”, chiaramente, “Ma sì, è solo cloro”.

Ecuador, piantagione banane
Foto di Chiara Sonzogni

Infine viene sigillato il picciolo, vengono asciugate, insacchettate e imballate. Le scatole si caricano direttamente nel container, refrigerato fino a destinazione, alla temperatura di 10/13 gradi. Le banane, in questa area del mondo, grazie al clima favorevole, crescono sempre, ma la terra non è la migliore, è troppo arida, ma non importa, quello che conta è che sia spaziosa, l’acqua viene trasportata con impianti e canalizzazioni lunghi chilometri.

Il processo di raccolta, controllo qualità, disinfezione e imballaggio avviene tutti i giorni, durante tutto l’anno, senza sosta. Lavorare in una piantagione è un buon lavoro, ma lo stipendio è il minimo sindacale (380 dollari), gli operai possono vivere nelle capanne all’interno della piantagione, con le famiglie, così i loro figli avranno un futuro garantito, lo stesso dei loro padri, senza immaginare qualcosa di diverso. Alle mie domande, frutto di critiche e perplessità, si risponde:

“L’Ecuador è il primo produttore di banane al mondo, siamo l’eccellenza!”
“Il Paese ha bisogno di tutto ciò”.

Alla luce di questo non stupirà sapere che il porto si dedica per il 95% all’esportazione di banane nei container, e che funziona tutto l’anno, senza sosta, si lavora 24 ore su 24, con turni di 12 ore per far partire i carichi in direzione del mondo. Ci sono banane (le migliori in assoluto) che viaggiano 90 giorni, fino alla Nuova Zelanda, in container sempre refrigerati che si alimentano di energia, senza sosta, anche in alto mare.

Da allora non riesco ad acquistare una banana senza pensare che dietro ai 30 centesimi del suo valore ci siano persone, famiglie, un intero paese, anzi il mondo intero. Non posso non pensare ai sacchetti di plastica blu, alla terra arida e spossata, all’energia usata, ai residui chimici gettati in mare per far sì che quella banana mi raggiunga e mi appaia perfetta, e di fatto lo è se non fosse che non avrà mai il sapore autentico di quelle imperfette, lasciate al popolo, quello delle banane vere che però noi, primo mondo, scartiamo.

E’ riflettendo su tutto questo che mi sono imbarcata su un piccolo traghetto per raggiungere l’isola di Jambeli e vedere l’altra faccia della medaglia, quella della natura selvaggia, dove non c’è posto per l’ordine e la produttività, ma solo per amache tese tra i pali dei gazebi sulla spiaggia.

jambeli, tramonto
Foto di Chiara Sonzogni

Jambeli è il punto di arrivo, il paesino che da il nome a questo lembo di terra, di fronte a Puerto Bolivar. Si tratta di un insieme di terre, piuttosto vasto, staccate dalla terraferma da ampi fiumi di acqua salmastra. La natura è selvaggia. Le strutture sono semplici, si tratta di aree campeggio o di gruppi di piccole ma comode capanne; ce ne sono varie, tutte molto simili e i gestori si fanno trovare all’attracco del battello, quindi individuare un luogo dove passare la notte è facile e i prezzi sono davvero bassi.

Anche qui si mangia del buon pesce, le taverne e ristoranti sono allineati sulla spiaggia e chiudono presto, alle 21 già si spengono le luci e non vi sono locali o bar; è quindi il posto perfetto per rilassarsi, per godersi qualche ora intorno a un fuoco sulla spiaggia (le serate sono molto fresche), per ascoltare le storie dei buffi abitanti, o per partecipare a qualche festa, tra le capanne, organizzate spontaneamente dagli ospiti o dai gestori di campeggi e ostelli.

Le spiagge sono ampie e sabbiose, l’acqua non è cristallina ma i tramonti sono stupendi. Il mare è davvero pacifico, a parte qualche forte mareggiata o onde anomale nelle stagioni più fredde, che spazzano via ogni cosa, ne vedrete tracce in alcune case di villeggiatura ormai abbandonate, ma cariche di fascino.

In quest’isola si trova uno dei mangrovieti più grandi dell’Ecuador, un complesso sistema di radici dove si raccolgono e coltivano le famose conchas negras, di cui gli ecuadoriani vanno ghiotti. Questi molluschi, simili a delle grandi vongole, crescono nel fango, da qui il loro colore nero e il sapore limaccioso. Le raccolgono uomini e bambini, a piedi nudi, per poterle sentire nella densità del fango. Fatevi portare a visitare questo luogo, qualcuno saprà indicarvi chi vi potrà noleggiare una piccola barchetta a remi. E’ un luogo affascinante, regna il silenzio interrotto solo dal suono sordo dei molluschi (clock-clock), che aprono e chiudono il guscio per respirare. Se siete appassionati di birdwatching e fotografia non potete proprio farvi scappare l’occasione di fotografare aironi e fenicotteri, dalle piume di colori vivaci e brillanti e dalle esili zampe.

mangrovie Jambelì, Ecuador
Foto di Diana Maria Zilioli

Molte porzioni di queste terre e delle loro coste sono occupate dagli allevamenti di gamberi, i famosi gamberi esportati in tutto il mondo. Però, a differenza delle piantagioni di banane, accedervi è impossibile, regna segretezza attorno al loro funzionamento, anche tra gli abitanti di Jambeli, come se davvero fosse meglio non sapere e addirittura non chiedere cosa succeda li dentro.

L’Ecuador purtroppo è anche questo, i casi di sfruttamento incontrollato delle risorse naturali sono numerosi. Si tratta di un aspetto poco attraente, ma un viaggiatore ha la giusta curiosità e forse anche il dovere di oltrepassare un po’ il confine, anche solo per osservare cosa succede dietro a una rete di cinta, tra una spiaggia e un gruppo di palme. Farlo vi permetterà di tornare con una ricchezza vera, quella che scuote le certezze e anima il pensiero.

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