Prima di raccontarvi della mia esperienza a Manta, è doveroso ricordare che nell’aprile del 2016 la città è stata colpita da un forte terremoto che ha interessato tutta la provincia di Manabí, provocando centinaia di morti e numerosissimi crolli. Il ritratto che vi fornirò della città è quindi precedente a questo drammatico evento, per questo potrà non essere fedele alla sua immagine e al suo carattere attuale. Ad ogni modo ritengo che dedicarle queste righe sia doveroso, per riconoscerle vicinanza e affetto.
Manta è una meta turistica molto ambita dagli ecuadoriani. È paragonabile al ruolo che la riviera adriatica aveva per gli italiani negli anni sessanta e settanta. Le strutture di ricezione turistica sono numerose, vi sono hotel per ogni fascia di prezzo e grandi residence che ospitano seconde case e appartamenti di villeggiatura. Come spesso in questi casi, il lungomare e il paesaggio costiero sono stati rovinati da una speculazione edilizia poco controllata e rispettosa. La città è attraversata da grandi strade in perfetto stile americano e molto trafficate; l’Avenida de la Cultura è la via principale d’accesso e taglia in due la città, a destra quella più povera, abitata da pescatori e commercianti, a sinistra quella ricca e benestante, con le grandi strutture alberghiere e i locali notturni.
Non esiste un vero e proprio lungomare anche perché il piano della città turistica si sviluppa a un livello più alto rispetto alle spiagge che risultano così incastrate tra le onde dell’Oceano e le alte facciate dei palazzi che fanno a gara a chi si erge di più e riesce così ad offrire la migliore vista del mare. Le spiagge sono ampie e sabbiose, offrono divertimenti, chioschi, bar e attività ludiche e commerciali. Le mappe riportano le indicazioni del centro storico della città, ma non esiste, si tratta del cuore commerciale di Manta, che ospita negozi, centri commerciali, bar, casinò, ristoranti e discoteche.
Sul lato opposto si sviluppa la città del quotidiano. Qui il tessuto urbano è molto più basso e si sviluppa allo stesso livello del mare. Anche in questo caso la qualità delle costruzioni è scarsa ma le vie e le piccole piazze sono vivaci e dinamiche: anche se sporche e poche curate sono certamente più accoglienti delle lussuose cortine dei palazzi della città alta. Ad esempio nel piccolo Parque Don Bosco troverete simpatiche panchine all’ombra di alti alberi, un luogo perfetto per sfuggire al caldo della città.

L’attività principale di Manta, oltre al turismo, è la pesca. É il secondo porto dell’Ecuador, quello che assicura l’esportazione delle maggiori quantità di pesce e che da lavoro a moltissimi ecuadoriani. Per questo una delle attrattive principali e forse l’unica ragione che potrebbe portare un viaggiatore fino a qui, è il mercato del pesce che si trova nel barrio Tarqui, direttamente sulla spiaggia, nei pressi di ristoranti e taverne che offrono ottimi piatti a prezzi bassi (consiglio la Picanteria Tiburon). Per vederlo all’apice della sua vivacità andateci verso le 5 del mattino, la fatica del risveglio verrà ripagata dalla possibilità di assistere ad uno scenario unico la cui descrizione riporto nelle prossime righe, direttamente trascritte dal mio diario di viaggio, integralmente, con tutte le domande e le considerazioni del momento che risulteranno poco attuali ma che considero significative.
“All’alba, sulla spiaggia di Manta, piccole imbarcazioni fanno da spola tra il bagnasciuga e i grandi pescherecci, ancorati a qualche centinaia di metro. Quando le barche si arenano, uomini forti scaricano e si caricano sulle spalle pesci grandi tanto quanto loro e li gettano sulla sabbia, in cataste differenziate secondo la specie; allora altri uomini li eviscerano (e gettano il contenuto in acqua), tagliano e selezionano pinne, spade, teste. Vengono quindi raggiunti dai primi mercanti che con il taccuino in una mano e la calcolatrice nell’altra, iniziano a fare offerte (basse), a valutare la qualità del pesce (mai sufficiente) e a dividerlo, ora non più secondo la specie ma la destinazione. La spiaggia, che nell’immaginario collettivo è un luogo di piacere, nelle prime ore del giorno è un mattatoio. Il caos regna sovrano, mi ricorda quelle scene, sempre e solo viste nei film, della borsa: mani che sventolano, numeri gridati, “no” dirompenti, discussioni in corso, coltelli all’opera e sopra tutto questo… voli di avvoltoi.
I camion con le celle frigorifere circolano liberamente fino al bagnasciuga, pesano e caricano i pesci migliori, congelati immediatamente per arrivare freschi a destinazione, spesso lontana, in un altro continente, il nostro per esempio. Quello che rimane, lo scarto, i pesci di piccola taglia, poco succulenti, dal colore non brillante, sono destinati al mercato locale, che si trova poco più in là, sul confine tra la strada e la spiaggia. Ha una bella struttura: pianta circolare, colonne e copertura in bambù, banchi in cemento e ceramica; una piacevole vetrina per la merce, già perché ormai dello squalo, del tonno, della corvina o del pesce spada non c’è più traccia, solo tranci, filetti, anelli, cubi, agli occhi di un passate inesperto semplicemente pesce. Al mercato il prezzo si alza, se sul bagnasciuga lo squalo costa 1 dollaro al kg, al mercato ne costa 3, vuol dire che in soli 100 metri la carne è già passata da 3 mani diverse e chissà tra quante ancora passerà prima di diventare cibo, soprattutto prima di raggiungere le nostre tavole. Significa anche che a quel pescatore che ha viaggiato tutta la notte, convivendo con l’imprevedibilità del mare, del freddo, dei pesci, basta o non resta che vendere il frutto del proprio lavoro ad 1 dollaro al kg.
Si pesca sempre, tutti i giorni, senza stagionalità; il mare viene saccheggiato quotidianamente. Mi trovo in viaggio, osservo tutto questo e lo appunto con il distacco e l’empatia che caratterizza ogni viaggiatore curioso. Intanto a poche decine di chilometri da casa mia si sta esponendo al mondo il tema “nutrire il pianeta”. I risultati di questo Expo non li vedrò in prima persona, il caso vuole che sia partita poco prima dell’inaugurazione e che farò ritorno poco dopo la chiusura. Però mi chiedo: è qui, sulla costa di questo paese, sulle spiagge e tra le piantagioni che si manifesta chiaramente il significato della frase “nutrire il pianeta”? Senza necessità di inscatolarlo dentro padiglioni glamour e patinati. Non è forse qui che si possono raccogliere spunti concreti per discuterne? Ma soprattutto sorge un dubbio: è chiaro il significato di pianeta? Ne fanno parte solo i continenti dove arrivano banane e pesci perfetti o si considerano anche queste spiagge e questi paesaggi? Se è valida la seconda opzione, ci si sta occupando davvero del loro nutrimento?”
(3 settembre 2015)
Vorrei chiudere con queste domande, un po’ retoriche e un po’ provocatorie, per lasciare spazio alle vostre considerazioni, di lettori attenti e viaggiatori consapevoli, ma come si confà ad un itinerario così fitto c’è ancora una tappa da raccontare, una storia più frivola e breve, ma comunque interessante: quella del cappello di pànama.
A circa un’ora di autobus da Manta si trova il villaggio di Montecristi, patria del pànama. Le guide descrivono un villaggio bucolico e ameno, con asinelli e donne che trasportano fascine di fresca e tenera paglia sulla groppa o in testa. Forse era così, ora purtroppo è piuttosto squallido e costituito solo da una grande via su cui si affacciano botteghe per turisti e negozi, che conduce alla cattedrale, sproporzionata rispetto alle dimensioni del villaggio. Ma la storia merita una visita.
Il famoso cappello prese il nome dal Canale di Panama, perché veniva indossato dagli operai per proteggersi dal caldo, ma in realtà si tratta di un oggetto della tradizione inca, fatto intrecciando le fibre delle foglie di una palma la paja toquilla. Più queste fibre sono sottili più il cappello è pregiato. La filatura avviene a mano (da sempre solo femminile) e con l’uso di piccoli macchinari essenziali, per questo il tempo necessario per produrre un cappello varia dai 15 ai 30 giorni, ragione per cui il prezzo di vendita è alto. I cappelli più pregiati hanno fibre così morbide e strutture così ben fatte che anche se piegati e sgualciti non perdono la loro forma.
Gli inca erano così esperti nella lavorazione di questa paja che addirittura la usavano per realizzare tessuti con cui fare vestiti, freschi e leggeri. Quando i colonizzatori toccarono con mano questi tessuti credevano si trattasse di pelle di pipistrello (molto sottile, leggera e pregiata) e non di fibre di palma. Si tratta così di una tradizione antichissima, unica al mondo, impossibile da imitare, che l’Ecuador deve preservare perché fonte di una ricchezza vera, quella della cultura, della tradizione e dell’artigianato. Se quindi siete interessati a portare con voi un pezzo di storia di questo paese non lasciatevi scappare l’opportunità di comprare uno di questi cappelli proprio qui, dove nascono; il costo è giusto e se pensate che qualunque dei pezzi che proverete è stato realizzato a mano, non sarà mai abbastanza.