Dopo aver lasciato Pristina, il nostro viaggio in Kosovo ci porta verso i monasteri serbo-ortodossi di Peć e Dečani. Nel Kosovo a maggioranza albanese e musulmana, tra le questioni irrisolte a livello territoriale ci sono ancora le enclave in cui i serbi ortodossi si mantengono isolati, non riconoscendo l’autorità kosovara. In particolar modo, la città di Gračanica o alcune città divise a metà, per etnia e religione, come Mitrovica, dove si sono vissuti spesso, dopo la fine della guerra, momenti di tensione.
Finita la guerra, come rappresaglia per la pulizia etnica che avevano subito, alcuni kosovari si scatenarono contro i simboli della cultura serba, in particolar modo contro le chiese ortodosse, come testimoniano le diverse chiese ricostruite, parzialmente o totalmente, come quella di Prizren. Per questo motivo alcune delle chiese ortodosse più importanti, soprattutto i monasteri storici, vengono difese dalla KFOR (dall’inglese Kosovo Force), l’esercito internazionale della NATO impegnato da diversi anni in Kosovo per mantenere la pace in questo territorio.
Decisi a visitare il primo monastero, ci dirigiamo verso Pejë (Peć in serbo). Le strade che ci portano fino a questa cittadina sono piuttosto agevoli, con un traffico più ordinato rispetto alla jungla di Pristina. A maggioranza albanese, Pejë è un insieme di costruzioni vecchie e nuove che parlano della storia del Kosovo. Facciamo un giro per la città, cercando il centro storico, facendoci guidare dalle case ortodosse e dalla gente che si reca ai bar per bere comodamente un caffè nelle strade che si snodano dalla piazza principale.
Nonostante si notino alcuni resti storici, non si può dire che la città di Pejë sia turistica o che i suoi abitanti si dedichino a questo settore, visto che ci sfugge per completo il vero centro storico interessante di Pejë, una zona in stile ottomano che riusciamo a intravedere velocemente solo dalla macchina. Per chi non volesse perdersela, è la zona che si trova vicino alla moschea di Xhamia e Pejës.
Un po’ delusi dalla scoperta tardiva, ci lasciamo la città alle spalle per avvicinarci alle pendici delle montagne dove si erge il Monastero patriarcale di Peć. Nei giorni precedenti, avevamo scoperto che questo complesso ortodosso veniva protetto dalla KFOR per evitare eventuali attacchi. In realtà, all’entrata abbiamo trovato solamente un gabbiotto dove ci hanno controllato rapidamente i passaporti.
Riusciamo a lasciarci alle spalle l’arco di accesso al monastero e ci ritroviamo in un piccolo paradiso naturale, la Gola di Rugovo, con una vista piuttosto imponente delle montagne fra cui si fa spazio il fiume Lumbardhi i Pejës. Prima di entrare nel monastero scorgiamo un furgone della KFOR, ma entriamo direttamente. Ad accoglierci, come ci era già successo nei monasteri serbi di Ovčar-Kablar, è una suora che ci spiega rapidamente quello che possiamo visitare e ci offre un’audioguida.
Il Monastero patriarcale di Peć è stato inserito nella lista del Patrimonio Culturale Mondiale dell’UNESCO. A prima vista assomiglia ad altri monasteri ortodossi che si possono ammirare in Serbia. Nella chiesa principale, che dall’esterno può passare piuttosto inosservata, invece, l’arte ortodossa medievale non lascia nemmeno un centimetro libero di respiro. Questo edificio, diviso in quattro piccole chiese, con un lungo porticato chiuso su tutti i lati, è un susseguirsi di affreschi dai toni blu, dalle icone impressionanti e dai sarcofagi di marmo che preservano i corpi dei precedenti patriarchi.
Sembra di fare un breve viaggio nel passato. Una suora piuttosto anziana indica, a noi e a pochi turisti e fedeli, la sequenza dei numeri dell’audioguida e cerca di scacciare un uccello che è entrato sbadatamente nel porticato chiuso. L’atmosfera piuttosto cupa e allo stesso tempo imponente dei monasteri ortodossi fa il resto.
A pochi chilometri a sud da questo luogo in cui il tempo si è fermato, si erge il Monastero di Dečani. Arriviamo nel paese che si estende lungo la via principale fra centri commerciali, negozi e caffè. Ci fermiamo per una pausa in una caffetteria dall’aspetto piuttosto pomposo, una sorta di grande sala ricevimenti per qualsiasi tipo di celebrazione, molto simile a quelle che si vedono lungo le strade kosovare o albanesi. Dopodiché, a pochi passi dalla strada principale, ci inoltriamo in un piccolo bosco che porta al monastero.
Se l’entrata del monastero di Peć non ci aveva riservato molte sorprese, quella di Dečani ci coglie completamente alla sprovvista. Prima dell’ingresso vero e proprio, infatti, ci ritroviamo di fronte a una torretta della KFOR, con una serie di dissuasori che limitano l’entrata dei visitanti. Intimoriti, indecisi se proseguire o no, ci avviciniamo lentamente con l’auto dove, dopo un breve sguardo, ci segnalano di proseguire verso il monastero.
I controlli continuano a pochi passi dall’ingresso dove ci viene richiesto nuovamente il passaporto da un membro della KFOR. Il motivo di questo dispiego di forze sono stati i tentati attacchi a questo monastero, durante gli ultimi anni, da parte di alcuni gruppi albanesi. L’esercito internazionale protegge il monastero per scoraggiare eventuali rappresaglie.
Nel parcheggio c’è un autobus di fedeli ortodosse, che incontriamo più tardi nel monastero con il tipico capo coperto da un fazzoletto annodato, accendendo le tradizionali candele presenti in tutte le chiese ortodosse. Ancora un po’ stralunati, entriamo nel monastero: ci troviamo improvvisamente al centro di un grande prato dove si innalza la chiesa principale.
Questo edificio è molto più alto e illuminato di quello di Peć ma, allo stesso modo, è impossibile posare lo sguardo su una parte sola della chiesa a causa dei tantissimi affreschi e icone che dipingono le sue pareti. Qui si trovano i resti del re Santo Stefano Uroš III di Dečani, il fondatore del monastero. Secondo la leggenda all’aprire la tomba, il suo corpo fu trovato pressoché intatto. Vediamo le donne incontrare all’ingresso della chiesa mettersi in fila per baciare o pregare il santo vicino al suo sarcofago scoperchiato e richiuso con delicatezza.
Dopo aver lasciato il monastero di Dečani e la sua difesa, è arrivato il momento di scendere ancora più a sud, fino ad arrivare a Junik, che ancora una volta, costeggia le montagne occidentali del Kosovo. Lungo la strada, come era già successo nel tragitto da Pristina, continuano a succedersi sul ciglio della strada una serie di grandi lapidi nere, con immagini, altrettanto grandi, che commemorano i morti durante la guerra del ’99.
Non è un caso che quest’area sia stata una delle in cui ha operato maggiormente l’Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UÇK) l’esercito di liberazione del Kosovo. Nel piccolo paese fra kulla (le tradizionali case fortificate), edifici moderni e qualche bar, si staglia al centro della piazza un memoriale delle vittime (civili e non) della recente guerra.
La nostra scelta di andare verso Junik è legata all’alloggio. Prima della partenza, infatti, abbiamo deciso di provare a passare la notte in una tipica kulla kosovara, la Konaku i Ramë Zyberit. È stato difficile inizialmente entrare in contatto con i proprietari perché non parlavano in inglese ma solamente albanese o tedesco. Siamo riusciti a prenotare grazie a un’amica albanese che ci ha aiutati a scrivere le mail.
Nonostante la pioggerellina insistente e fastidiosa, riusciamo a trovare piuttosto facilmente l’edificio. A gesti, ci presentiamo al giovane anfitrione che, dopo averci accolto, nel tipico giardino della kulla, ci mostra la nostra stanza. Salendo per la tipica scala di legno entriamo nella zona degli alloggi formata da stanze piuttosto spartane, con solo due letti, una cassapanca, un tipico tappeto albanese e una finestra. Il bagno è fuori, in comune con il resto degli ospiti.