Ci alziamo di buonora, carichi e pronti per una nuova giornata. Prima di lasciare l’hotel Oasis, ci chiedono cosa vogliamo per cena e se abbiamo bisogno di acqua. Infatti a Dori il cibo lo devono far arrivare e se non chiedi nulla, rimani a bocca asciutta. L’offerta non è così ampia e optiamo per pollo, piselli e una buona scorta d’acqua.

Eccoci in partenza, destinazione Bani. Saliamo sul primo autobus che fa la tratta Dori-Ouagadougou, per percorrere i 35 km di distanza. Bani è un piccolo villaggio, a predominanza musulmana, famoso per le sue 7 moschee di fango. Si distribuiscono lungo le colline circostanti e gli inconfondibili minareti, trafitti dai numerosi bastoni, sono alquanto suggestivi considerando anche che sono le uniche costruzioni a innalzarsi verso il cielo per centinaia di chilometri, in cui regna indisturbato l’arido e piatto sahel. Le moschee, decorate in modo davvero originale con incisioni nel fango, sono il miglior esempio di tutto il Burkina faso. Partendo dalla moschea principale, chiamata Mani di Dio che si trova al centro del villaggio, si prosegue poi lungo i pendii per raggiungere le altre sei (non tutte in ottimo stato di conservazione): la moschea del sole che tramonta, quella del sacrificio, della buona idea, della gioia, del piacere e del sorgere del sole. Le 7 moschee sono disposte in un ordine ben preciso che figura la posizione di un uomo in preghiera con testa, mani e piedi. Sono tutte simili, soprattutto all’interno. Sabbia in terra, colonne portanti in pietra, volte lungo il soffitto. Spazi ampi per la preghiera, spogli e rigorosamente senza rappresentazioni iconografiche, come vuole l’Islam in cui è proibito raffigurare Dio.
Conviene chiedere di una guida locale che vi accompagni e vi spieghi la storia e il significato dell’architettura. Lonely Planet nel 2003 suggeriva un certo Cissé Souabou che parla francese e che volendo vi può venire anche a prendere a Ouaga e far pernottare nell’unico hotel di Bani, l’Hotel de Fofo. Il tutto per una cifra negoziabile intorno ai 10.000 CFA. Per chi come noi, si fa semplicemente accompagnare lungo il tour delle moschee, il prezzo scende ulteriormente.

Ed eccoci a camminare in questo villaggio ocra, sotto il caldo sole africano. Non c’è molta gente e in compagnia di Cissé, ci dedichiamo alla prima moschea, la più bella, come le altre realizzata in terra cruda è decorata con ricami geometrici scavati nel fango. Dal tetto la vista è suggestiva. La sua storia è curiosa e strettamente legata alla figura di Mohamed Kafando, considerato un profeta, che dopo un sogno rivelatore decise di costruire una moschea a Bani. E così fu, grazie anche all’aiuto dei fedeli provenienti da paesi circostanti come Niger e Mali. Si narra che Mohamed Kafando all’età di sette anni, nonostante non avesse mai letto il corano, iniziò a parlare come un profeta e che nel ’75 raggiunse la Mecca a piedi in soli tre giorni. Molti i credenti che giungono a Bani per avere l’onore di ascoltare le sue parole, e anche noi abbiamo avuto questo privilegio. Un uomo dallo sguardo profondo, vestito di stracci bianchi, che vive in disparte in questa Bani silenziosa. E quello che ci dice è che abbiamo ucciso il nostro Dio, dopo averlo messo in catene. Che intenda il fatto che gli ebrei misero in croce Gesù Cristo? O forse qualcos’altro che ci tocca molto più da vicino? E con questa domanda che insinua pensieri, ci lasciamo con il sole che cala e irradia tutto di rosso.
Torniamo al punto di partenza lungo la strada che collega Dori a Ouaga, aspettando il primo autobus che non dovrebbe tardare. E invece i minuti passano, poi le mezzore e infine le ore. Siamo seduti su una piccola panca in legno e iniziamo a preoccuparci. Si viene a sapere che lungo la strada ci sono stati dei problemi, un ponte che ha ceduto, probabilmente. Si fa buio e si fatica a ingannare il tempo. Sale la fame e a Bani non è certo possibile distrarsi magari andando a mangiare un boccone o facendo un giretto. Di luci non ce n’è quasi per niente. Un baracchino poco distante ci vende dei biscotti rancidi e delle scatolette di sardine decisamente poco convincenti. Per fortuna di acqua ne abbiamo. Ed eccoci lì a ridere di noi che la mattina snobbavamo il pollo e piselli, un miraggio ormai. La prendiamo sul ridere, siamo in “vacanza” dopotutto… e posiamo a terra le scatole vuote delle sardine. Chiacchieriamo, cerchiamo di distrarci, ma il tempo è lento a passare. Cerchiamo le lattine per buttarle, in quel buio qualcuno si può fare male. Sparite. Ma dove le hai messe? Proprio qui. Ma sei sicura? Si certo! Guarda che ti sbagli, non ci sono e se qualcuno ci cammina su?! Ma sono certa. Ed ecco due occhi poco distanti, timidi, che si fanno avanti. Un giovane ragazzo di cui non ci eravamo accorti, di cui non avevamo percepito la presenza è sgattaiolato via con le nostre lattine per ciucciare l’olio avanzato, mentre eravamo lì a ridacchiare e magari fare qualche smorfia. Un altro pensiero ci balena per la testa, c’è chi di fame ne ha da morire ed è proprio lì di fianco a noi, solo che non lo vediamo. Il riso scappa via e ci lascia interdetti nella notte, al buio.
Ci aiutano a costruire due piccole tende per riposare in attesa dell’autobus. Ormai è notte fonda. Ci mettiamo dentro in attesa e finalmente sentiamo in lontananza un rumore. Un camion carico di lavoratori, al volo lo fermiamo, ci mettiamo d’accordo su una cifra e siamo a bordo. Chi davanti con il guidatore e qualche altro gigante dormiente, chi dietro nel rimorchio, premuto tra una miriade di persone che è un miracolo starci. Vanno al lavoro, chissà dove… giusto qualche chilometro e buchiamo. Tutti giù, di nuovo. In una notte nera che sembra non voler mai finire.
Il viaggio continua… Nella città di Bobo-Dioulasso ➔