A Banda Aceh arriviamo alla fine di un lungo viaggio attraverso l’isola di Sumatra, in Indonesia. E’ una città di medie dimensioni, situata sulla punta nord-occidentale di Sumatra. Nel 2004, due anni prima di questo viaggio, se ne parlò a causa dello tsunami, che fece i suoi danni peggiori proprio in questa regione: 200 mila vittime e circa il 50% degli edifici distrutti.
In tre giorni non abbiamo incontrato neanche un turista. E a Banda Aceh in effetti non esistono attrazioni turistiche di alcun genere, a meno di considerare tali la moschea e il mercato. Quando viaggio è un sollievo enorme arrivare in questi posti, dove non c’è nulla da fare e da vedere e puoi abbandonarti completamente all’ozio. In un posto così anche andare a comprare un’aranciata è una scoperta. O stare affacciati alla finestra a guardare la strada e la gente che passa. Dal porto partono inoltre i traghetti per l’isola di Pulau We, un paradiso tropicale che al momento del nostro viaggio era frequentato nel weekend da pochissimi turisti occidentali, per lo più operatori di ong.

La regione di cui Banda Aceh è capoluogo è quella con il maggior numero di musulmani di tutta l’Indonesia. La vittoria elettorale del partito islamico, poco prima dello tsunami, ha determinato un brusco irrigidimento delle posizioni indipendentiste e islamiste, e scontri tra polizia governativa e milizie locali. Banda Aceh è diventata la prima e unica città di Sumatra e dell’Indonesia a introdurre la legge islamica e il velo obbligatorio. Pure le ragazzine lo portano: vanno in giro con velo islamico, t-shirt con scritte in inglese e jeans attillatissimi e guidano la motocicletta con il casco sopra il velo. I ragazzi scorrazzano per la città con gli scooter Honda, non mettono il casco e, non diversamente dai giovani europei, ascoltano musica americana con lettori mp3 di fabbricazione coreana.
Ci avevano sconsigliato di visitare questa zona di Sumatra. Un po’ per le difficoltà logistiche collegate al recente tsunami, un po’ per il radicalismo islamico. Non dico paura, ma qualche ansia ce l’avevamo, soprattutto ci chiedevamo come la gente avrebbe accolto due turisti occidentali. Nessun problema. Anzi: curiosità, rispetto e ospitalità, anche timidezza (reciproca). Siamo stati in mezzo alla gente. Mai una parola, mai uno sguardo indiscreto, mai una situazione di difficoltà o d’imbarazzo. Tanti sorrisi e cordialità senza invadenza, in perfetto stile indonesiano. L’aggressività nei rapporti umani e l’intolleranza non fa parte del carattere di questa gente.

La sensazione che abbiamo avuto (probabilmente superficiale visto il poco tempo trascorso sul posto) è che l’islam politico non sia così sentito dalla popolazione, che certamente è musulmana per tradizione ma che tende non politicizzare la religione, e a mescolarla con altri elementi culturali, tradizionali o importati. Banda Aceh è sicuramente un laboratorio politico per il sud-est asiatico: qui, grazie anche ai cospicui finanziamenti delle monarche sunnite (prima tra tutte l’Arabia Saudita) si cerca di abbattere la laicità che da sempre caratterizza lo stato e il popolo indonesiano, miscuglio ineguagliabile di razze, lingue e religioni. Una messa in scena politica dai risvolti grotteschi e dagli esiti al momento imprevedibili, in cui si ostentano simboli identitari ai quali, per il momento, si crede fino a un certo punto.
Un giorno, dopo aver chiesto a lungo in giro, riusciamo a noleggiare uno scooter e facciamo un giro nei dintorni. Emozioni forti: lo scooter si rompe in mezzo al nulla, ci raccoglie un tizio con un camioncino che incredibilmente parla italiano e ci offre pure il caffé fatto con la Bialetti. Ci racconta di aver vissuto alcuni anni a Milano, nel quartiere di Lambrate. Dopo lo tsunami che ha letteralmente cancellato il suo villaggio natale e ucciso la quasi totalità degli abitanti ha deciso di tornare, è riuscito a ottenere qualche finanziamento per la ricostruzione e sta provando eroicamente a mettere su un ristorante sulla spiaggia. Ma due anni dalla tragedia è grande la devastazione e lo spopolamento. Di turismo neanche l’ombra. A diversi chilometri dalla costa campeggia come macabro monumento una grande nave peschereccia piegata e trascinata fin li dalla furia del mare. Il nostro amico ci accompagna dal meccanico, nel vicino villaggio. Il meccanico lavora un’ora e rimette il motorino in sesto per una cifra irrisoria. Intorno gruppi di uomini del posto ci osservano muti, con curiosità indolente.

A Banda Aceh non c’è niente da fare. Non ci sono pub, non ci sono cinema. Ma esistono posti dove andare a mangiare che sono uno spettacolo. Passeggiando senza una meta precisa per le strade del centro, all’ora di cena, ci imbattiamo in una porta anonima con un’insegna che ritrae un enorme granchio rosso. Decidiamo di entrare e ci troviamo una trattoria, molto popolare e molto in voga, dove i cuochi sudano copiosamente e preparano taglierini e spaghetti dentro grandi wok di metallo. Nessuno parla inglese. Il menu scritto a mano su carta, oltre ad essere unto e stropicciato, è del tutto inutilizzabile a meno che non abbiate dimestichezza con l’indonesiano. Ma non sarà troppo difficile spiegare a gesti che volete la specialità della casa: gli spaghetti con il granchio, l’enorme granchio rosso dell’insegna. Alla fine, Banda Aceh mi resterà dentro molto più delle spiagge meravigliose e dei bellissimi parchi naturali visti durante il viaggio in Indonesia.