Sono stata due volte in Etiopia, visitandone sia il nord che il sud. La prima volta, nel 2014, fui colpita da quanto fosse verde e incontaminata. Potevi viaggiare centinaia di chilometri senza incontrare macchine, industrie, spazzatura, ma solo colline verdeggianti e villaggi con case rotonde fatte di fango e tetti di paglia. Solo Addis Ababa e poche altre città erano raggiunte dalla corrente elettrica e solo in poche città le case erano in cemento e mattoni. Come vivere nel 1800. L’anno dopo sono tornata e già le cose erano incredibilmente diverse. Un’autostrada costruita dai cinesi in pochi mesi ora unisce Addis a Shashamane; le case rotonde di fango vengono sostituite velocemente da parallelepipedi con le pareti in legno e i tetti in lamiera, costruiti gli uni accanto agli altri e senza più giardini o spazi vitali intorno, simili a slum più che a villaggi. Per erigere queste “case” stanno disboscando intere foreste, ma ciò nonostante restano senza elettricità, senza acqua corrente e senza alcuna comodità. Uno sviluppo non programmato, che non porta cambiamenti di sostanza e in compenso brucia risorse ambientali.
Questo cambiamento repentino non toglie che l’Etiopia sia per la gran parte un luogo ancora incontaminato, e assolutamente da vedere.
Il nord e il sud sono profondamente diversi. Il nord, Addis compresa, si estende su altipiani verdissimi, mentre nel sud troviamo valli semidesertiche, totalmente dipendenti dal fiume Omo e dalle sue esondazioni. La zona tribale si trova appunto nel Sud, Sud Ovest dell’Etiopia. Nella creazione dei confini dei vari stati africani infatti, la zona abitata dalle principali tribù fu divisa tra Etiopia, Sudan e Kenya. Per questo, alcune delle tribù presenti in questo territorio si possono ritrovare anche negli altri due stati. Ci sono tribù etnicamente più vicine, che hanno costumi e tradizioni simili e altre invece che sono tradizionalemete nemiche. Ogni tribù, però, ha una sua lingua, un proprio stile di vita e propri cerimoniali cui è bellissimo poter assistere. Per questo motivo è opportuno avere una guida locale che possa spiegare ogni particolarità.
La valle dell’Omo è perfettamente visitabile anche nel periodo più piovoso, ovvero agosto, dal momento che le piogge sono solo occasionali. In due viaggi non credo che sia mai piovuto. In ogni caso è necessario noleggiare un 4×4 con autista, altrimenti non sarà possibile raggiungere i posti più lontani dai pochissimi centri abitati. Il costo giornaliero del 4×4 con l’autista, comprensivo di alloggio per l’autista stesso, il suo cibo e la benzina, si aggira fra i 150 e i 130 $ al giorno, che però si possono dividere se si hanno o si trovano dei compagni di viaggio. A questo costo si devono aggiungere quelli per la guida, se avrete deciso di averne una, l’ingresso ad ogni villaggio (diverso a seconda del villaggio e della tribù) più il costo della guida del villaggio (questa obbligatoria) che è una guida ufficiale, con tanto di tesserino governativo. Spesso si tratta di un membro stesso della tribù che conosce l’inglese e che potrà spiegare tutti gli aspetti della vita del villaggio.
Le tribù della Valle dell’Omo sono numerose, alcune molto simili fra loro, altre molto diverse. Fra queste, la più piccola è quella dei Karo, o Kara. I Karo sono ridotti a circa 1000, 1500, vivono in tre villaggi sulle sponde del fiume Omo e fra questi il villaggio più visitato, perché più facilmente raggiungibile, nonché molto pittoresco, è il villaggio di Kolcho. Il villaggio dista circa 75 Km dal centro abitato di Turmi, tutti da fare su strada sterrata o pista.
Si tratta di poche capanne di legno e paglia, che sorgono su un’altura piatta sopra le sponde del fiume. Appena fuori dal villaggio si gode della vista mozzafiato sull’ansa del fiume, che fino a pochi anni fa era coperta di vegetazione. Oggi purtroppo non è più così.
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I Karo hanno sempre vissuto di pastorizia e di agricoltura, basata su ciò che era coltivabile sulle sponde del fiume, grazie anche alle esondazioni annuali. Prevalentemente vengono coltivati cereali poveri, come il sorgo. Purtroppo questa terra così fertile in confronto al resto, ha fatto gola ad alcune industrie straniere che sono riuscite ad ottenerne dal governo etiope la proprietà. La sponda del fiume su cui sorge il villaggio è stata così disboscata (è bastato un anno dal 2014 al 2015 per vedere lo scempio che sta accadendo e che sta distruggendo uno dei paesaggi più iconici dell’Etiopia stessa). Al posto della foresta adesso, secondo le informazioni che ci hanno dato in loco, ci sarà una piantagione di cotone appartenenete ad un’industria turca.
Quando siamo arrivati a Kolcho, dopo solo un anno, siamo rimasti sbigottiti. Talmente sbigottiti che la guida del villaggio, un ragazzo della tribù, ci ha chiesto cosa ci succedesse. Gli abbiamo spiegato che eravamo sconvolti da quello che vedevamo e questo gli ha permesso di parlare apertamente con noi e raccontarci tutta la sua amarezza e quella del suo popolo sostenendo che nessuno ha chiesto il loro permesso per occupare le terre che abitano da secoli, “sono arrivati e le hanno prese”, che nessuno ha dato loro in cambio un luogo dove andare a vivere, lontano dalla piantagione turca, che gli uomini sono stati spinti a lavorare nella piantagione stessa col miraggio di pochi guadagni, ma tutti i soldi finiscono negli spacci di alcolici, dove la sera gli uomini, non preparati al “progresso” vanno ad ubriacarsi. La piantagione sarà irrigata con le acque dell’Omo. Questo e la diga di Gibe III faranno diminuire il livello delle acque di tutta la zona, fino al Kenya, al lago Turkana di cui l’Omo è un affluente. Nel dossier di Survival leggiamo che numerosi esperti indipendenti sostengono che il livello delle acque del Turkana si abbasserà di circa 2/3, distruggendo l’habitat naturale e l’economia della zona, basata prevalentemente sulla pesca, e che centinaia di migliaia di persone perderanno i loro mezzi di sussistenza, rimanendo in stato di assoluta indigenza. Ciliegina sulla torta, il progetto della diga di Gibe e la sua realizzazione sono in mano alla società italiana Salini. Lo studio di impatto ambientale della diga è stato approvato dal governo etiope che continua a sostenere che la diga è necessaria per l’irrigazione delle coltivazioni e per la produzione di energia idroelettrica.
I Karo sono solo la più piccola delle tribù dell’Omo, quella che forse sparirà per prima. Ma in realtà questo amaro destino sembra spettare a tutte le tribù della Valle. Ritengo che sia importante andare, vedere con i propri occhi, fare in modo che il turismo e i viaggiatori sostengano la causa di queste persone e del loro diritto a scegliere la vita che vogliono, quella tribale o quella “cittadina”. Loro sono accoglienti e nonostante la valle sia sempre più accessibile, rimangono autentici. La loro vita non è stata cambiata dalla presenza di stranieri e nulla di ciò che si può vedere è fatto per lo spettacolo del turista. Si tratta quindi ancora, e forse purtroppo per poco, di un viaggio veramente unico.
[alert type=”success” dismiss=”no”]» Se volete saperne di più sulla situazione della valle dell’Omo, vi raccomando la lettura di questo articolo: Una diga italiana in Etiopia rischia di ridurre alla fame mezzo milione di persone.
» Per scoprire come contribuire alla tutela dei popoli della valle dell’Omo, trovare documenti e dossier di approfondimento e notizie aggiornate: Survival: Popoli della valle dell’Omo.[/alert]