Rocinha, orgoglio e pregiudizio in una favela di Rio de Janeiro

Mi sono posto a lungo la domanda: per quali ragioni andare a visitare una favela come Rocinha a Rio de Janeiro? Semplice voyeurismo umano? La ricerca di un brivido insolito? E comunque, è giusto farlo o è meglio restare confinati nel bel recinto turistico delle spiagge, dei locali di samba e dei monumenti?

Le risposte giuste me le da Luiza, colei che sarà la mia guida: si va a Rocinha per liberarsi dal pregiudizio, per poter raccontare al mondo che l’equazione ‘favela = crimine e disperazione’ non corrisponde sempre alla realtà, per rendersi conto davvero come è la vita quotidiana in una favela e come la favela stessa è strutturata. Ed è giusto andare perché grazie al lavoro di tante associazioni la visita diventa un gesto di solidarietà. Una solidarietà che ha una doppia valenza. Prima di tutto la metà del costo della visita serve a finanziare un asilo di Rocinha. In secondo luogo perché più visite permettono di formare e dare un lavoro come guide ad un numero sempre maggiore di ragazzi e ragazze che vivono nella favela.

Rocinha, con i suoi 300.000 abitanti, è la favela più grande del mondo. E’ stata costruita in modo disordinato – questo è ovviamente un eufemismo – su una ripida collina nella ricca «Zona Sul» di Rio de Janeiro dai poveri immigrati nordestini a partire dagli anni 20 del secolo scorso. Lo stato non fornisce nulla, nessun servizio. Niente scuole, acqua, elettricità, ospedali. E allora gli abitanti se li prendono – nel caso di acqua ed elettricità – o si organizzano. Ovviamente non pagano nulla, nemmeno le tasse.

Luiza mi spiega che il problema più grave sono le fogne che in parecchie parti della favela sono a cielo aperto. Con un investimento importante ma relativamente modesto se paragonato per esempio al budget per la candidatura olimpica di Rio si potrebbero coprire le fogne di Rocinha e migliorare in modo sostanziale le condizioni di vita degli abitanti. In realtà la politica del governo brasiliano (di tutti i governi brasiliani) é sempre stata chiara: da qui ve ne dovete andare, vi diamo una casa in periferia. In periferia, ovvero lontanissimo dalle possibili fonti di lavoro. Nei quartieri di Ipanema, Leblon, Sao Conrado moltissimi rocinhesi lavorano come camerieri, muratori, donne di servizio e così via. E poi lontanissimi dai meccanismi di mutua assistenza e solidarietà che esistono a Rocinha e che fanno si che alla miseria non si aggiunga la solitudine e l’emarginazione da un tessuto sociale.

Neppure coloro che vivono più in alto sulla montagna, nelle case più povere costruite con plastica e legno e che vengono regolarmente spazzate via ogni volta che piove in modo un po’ sostenuto accettano di andarsene. «Vi diamo una casa sicura in periferia» dicono. “E il lavoro? i trasporti? le scuole?». No, tutto il resto non glielo danno. E quindi restano. Perché può sembrare pazzesco ma tutte queste cose a Rocinha ci sono.

Lavoro, commercio, servizi, costruzione. Scuole – certo troppo poche, finanziate con molte difficoltà (o ancora peggio dalle chiese che poi si oppongono al preservativo) e purtroppo abbandonate dai ragazzi in giovane età. Asili come quello che ho visitato che ospitano i bambini dalle sette del mattino alle cinque della sera e che provvedono a tutto, colazione, pranzo, cena. Prima di cena perfino la doccia. Ho visto con i miei occhi le maestre volontarie spazzolare i capelli alle bambine con una dolcezza ed un buon umore infinito, probabilmente inimmaginabile alle nostre latitudini, e mi sono sorpreso a pensare “vorrei loro per le mie figlie”.

“Poveri ma felici”. Lo dice Luiza e a me fa pure un po’ rabbia. Ma forse non é solo un brutto slogan. A Rocinha i politici – tutti i politici, Lula compreso – non sono molto popolari. Si fanno vivi ogni quattro anni (ed in Brasile il voto è obbligatorio) fanno promesse e poi spariscono. È l’Associazione a gestire la solidarietà.

Adesso a Rocinha vengono a stare anche persone che semplicemente non si possono permettere una casa in altri quartieri. C’è un vero mercato immobiliare. É arrivata perfino una famiglia cinese. E poi? Beh, il traffico della droga. Nelle favelas comunque una parte della popolazione lavora al servizio delle gang che si occupano anche di tenere l’ordine pubblico con metodi discutibili ma efficaci. Salendo per le vie scure ed intricate in cui i cavi dell’elettricità crescono e si avvolgono come rampicanti amazzonici si scorgono ragazzi di sedici, forse quindici anni con fucili e mitragliatori. “Questo non ci piace” dice Luiza “ma é così ed è comunque meglio della polizia che ci considera tutti indistintamente dei criminali. Che prima picchia e poi chiede”.

Rocinha impressiona, sfida continuamente i nostri giudizi, i pregiudizi, le idee che abbiamo del mondo e le nostre opinioni. I metri di giudizio cambiano. Ti da una speranza e subito dopo te la toglie. Nelle sue strade strettissime, scure e umide, spesso puzzolenti, sempre rumorosissime convivono gli Internet Café a banda larghissima, i commerci, la povertà, le pizzerie, i negozi, l’artigianato, le armi, le ragazze madri a tredici anni, le malattie, la raccolta dei rifiuti autogestita e la sporcizia. La solidarietà e la dignità con lo spietato racket della droga.

Mi porto via tante sensazioni, tante immagini importanti che mi aiutano a completare quel puzzle magnifico e complesso che è Rio de Janeiro. Una indelebile: la calma quasi ipnotica della maestra che spazzola i capelli della sua alunna come se fosse l’unica cosa importante da qui alla fine del mondo.

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