Nell’immaginario collettivo, soprattutto occidentale, il Vietnam si rapprende in alcune fotografie ormai divenute turistiche: l’arrembante esuberanza di Ho Chi Minh City (già Saigon), tanto inquinata dal traffico quanto contaminata dall’espansività della sua gioventù motorizzata; le spiagge di Nha Trang, dove non più tardi di 40 anni fa gli occupanti a stelle e strisce si dilettavano a surfare le onde del Pacifico durante le loro licenze; le strette viuzze di Hoi An, città di millenaria tradizione commerciale, tra botteghe di tessuti e spezie; le austere tombe degli imperatori nei pressi dell’ex capitale Hué, dove ancora si respira un certo senso di decaduta nobiltà e prestigio, fino ad arrivare all’ossimoro delle atmosfere a un tempo frizzanti e altere della capitale politica e culturale del paese: Hanoi.
Da sud a nord il paese mostra un volto poliedrico nel quale influenze autoctone, cinesi e occidentali si mischiano a creare un sincretismo fascinoso e talvolta disorientante: culture, popoli e storie che provengono da fonti differenti e convergono in agglomerati urbani, o anche solo villaggeschi dove la vita è scandita da affari d’ogni sorta e voci di tutte le età.
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Ad Hanoi, in particolare, la vita sembra miscelare le pulsioni più estreme della modernità – lo si vede, per esempio, nella continua cementificazione delle periferie – a un certo tono ancora provinciale e familiare che emana soprattutto dalle arterie del quartiere vecchio dove il formicare della quotidianità – a tratti amena, a tratti vivace – sembra eludere i richiami della modernizzazione. Odori, colori, sapori sono quelli di un tempo, quelli di sempre, non necessariamente autentici, giacché Hanoi è sempre stata terra di passaggio e di conquiste, ma certamente quelli di una nobile povertà materiale cui si contrappone una ricchezza culturale, sociale e sentimentale di mutuo soccorso e di apertura verso lo straniero.
In questo contesto, la città offre diverse oasi nelle quali non solo riposarsi e ritrovarsi, ma anche dove sia possibile incontrarsi e riconoscersi. Baretti, pub, negozi d’artigianato, piccole locande dove mangiare un boccone senza farsi troppe domande sull’origine di certi sapori pungenti, o sullo stato delle cucine che affacciano spesso su vicoli umidi e marcescenti. E poi ci sono gli innumerevoli musei: qui la cultura, nella sua forma collettiva, incontra il presente e i presenti, mostrando le diverse sfaccettature storiche del paese e i soprusi cui spesso è stato soggetto. Spesso, tuttavia, i musei sono spazi istituzionalizzati nei quali il dialogo tra le parti avviene in maniera indiretta, mediata da fonti ufficiali, didascaliche, e da guide turistiche debitamente educate.
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C’è però uno spazio che elude questa dinamica: è il Tempio della Letteratura. Dal punto di vista occidentale, che è fondamentalmente dualistico e verticale con la sua suddivisione tra corpo (terreno) e mente (eterea), la possibilità di dedicare un tempio – spazio concettuale destinato al divino – alla letteratura – arte millenaria, ma pur sempre umana – suona piuttosto contraddittorio. Tuttavia è proprio in questa contraddizione che si cela una delle chiavi di lettura non solo di questa istituzione cittadina, intitolata originariamente a Confucio, ma anche del pensiero olistico e spiritualista di gran parte delle culture asiatiche.
E dunque, entrare in questo tempio delle lettere significa, soprattutto, celebrare la vita attraverso la parola: costituito, nella tipica tradizione cinese, da una serie di padiglioni, stagni, tempietti e giardini che si susseguono l’uno dopo l’altro, esso inscena, attraverso la sua stessa visita, gli alti e bassi dell’esistenza e la materializzazione delle umane vicende quotidiane.
Nel romanzo di viaggio che ho dedicato al Vietnam (In Vietnam. Digressioni di viaggio, Prospero Editore) descrivo così la fascinazione di varcare le mura del tempio, vera e propria oasi di ristoro all’interno della capitale:
Da un lato, la sacralità del luogo è sancita dalla quiete nella quale il tempio è immerso; una quiete, in effetti, segreta e inebriante a un tempo, nella quale a condurre i passi sono i fumi degli incensi e i sussurri dei presenti. Vi sono affrettati visitatori, certo, ma anche devoti comprimari senza alcuna costrizione, i quali giungono al tempio al mattino per rimanevi fino a sera, nella speranza, magari, di praticare qualche foreign language. (…) Dall’altro lato, mi affascina il constatare come il rimando alla letteratura non sia solo evocativo, ma ben manifesto. Inizialmente luogo d’istruzione e iniziazione per i mandarini di corte, dal XV secolo il tempio divenne ufficialmente la prima università pubblica del Vietnam, aprendo le sue porte agli studenti più brillanti del paese.
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Se ho riportato queste poche righe è perché sono convinto che racchiudano lo spirito del luogo. Il tempio si distingue da tutto quanto Hanoi abbia da offrire in termini culturali, religiosi e mondani poiché rappresenta non uno spazio di approdo, ma di passaggio. Esso infatti, lontano dal configurare una dimensione di pio riserbo, di sosta, è animato da una linfa vitale fresca, terrena, del tutto immanente. Ecco allora che, in quanto tale, il tempio si propone soprattutto come luogo di confronto tra epoche diverse e tra culture (odierne) differenti, dove sia conoscenti che perfetti sconosciuti scambiano una parola, fiumi di discorsi, o anche solo silenziosi cenni di assenso.
Luogo di dialogo nel quale il verbo viene celebrato in ogni sua forma – scritta, parlata, declamata e finanche dipinta se si pensa che, appena fuori dalla cinta delle mura del tempio, schiere di artisti occupano il marciapiede scrivendo e recitando poesie o impartendo lezioni di calligrafia – il Tempio della Letteratura di Hanoi è un unicum non solo in Vietnam, ma in tutto il mondo: un’istituzione in grado di celebrare e rigenerare, d’un sol colpo, corpo, mente e spirito e di far sentire i suoi avventori connessi tra loro, a prescindere dalla terra di origine di ognuno e dal passato di tutti.
L’ingresso al tempio è a pagamento (circa un euro), ma una volta all’interno qualsiasi foga turistica o mercificante viene deflessa dal semplice piacere di attraversare la sua pittoresca geometria e incontrare generazioni sia di ieri che di oggi, accomunati dalla medesima prassi del pensiero, ovvero dalla contemplazione del presente.
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