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Irian Jaya: i Dani della valle del Baliem

Era l’agosto del 1991 quando ancora ragazzina feci un viaggio, che porto con me.
Atterrammo con un areoplanino di carta, in un aeroporto di fango e galline. Otto giorni di trekking per spingerci all’interno di una foresta che si estende maestosa e fitta lungo la valle del Baliem in Irian Jaya (Nuova Guinea Indonesiana). In cinque con la guida e due portatori scalzi carichi di galline schiamazzanti e pochi bagagli, andavamo alla ricerca delle tribù Dani.

Eravamo inghiottiti in una foresta arcaica, incontaminata che a ripensarci ora, mi fa riflettere su quanto sia azzeccata la similitudine con quella parte di noi che ci rimane ignota. Mi sentivo minuscola in un intrigo fitto e infinito dentro me stessa. I miei ricordi si contaminano di libri letti e storie ascoltate o forse sono le storie che ho letto e sentito ad essere state contaminate da sapori, odori e sensazioni che ho provato. Chi può dirlo. So solo che questa è l’esperienza che ho vissuto.

Si camminava un sacco. Ore e ore al caldo umido della foresta pluviale. Io, mio padre e la guida, andavamo più spediti degli altri, così un giorno ci staccammo dal gruppo. E ci perdemmo. Camminammo per così tante ore, che non ricordo neppure più quante. Non mi spaventai affatto, anzi nella mia testa era divertente attraversare fiumiciattoli, seguire tratti senza sentiero e arrampicarmi un poco dove non era possibile proseguire. Però ricordo chiaramente quello che accadde in seguito. Quando finalmente raggiungemmo il villaggio c’era mia madre che ci aspettava terrorizzata con gli occhi fissi nella boscaglia. Spiccava tra i suoi abiti sporchi e la sua pelle chiara in mezzo a quella scura e fiera nudità. Beh, si scoprì che c’era ancora un pezzo di strada da fare e la guida chiese a mio padre se volessi essere portata in spalle vista la fatica. Reagii un pò stizzita. Non avevo certo bisogno di essere aiutata, io (non sia mai…)! Mio padre declinò gentilmente l’offerta, ma il mio atteggiamento probabilmente fu frainteso e la guida chiese: “E’ per il colore della mia pelle?” Mi ricordo perfettamente che sentii uno strappo. Forse a raccontarlo così può apparire eccessivo, ma allora provai una sensazione davvero orribile, fu come se di colpo mi rendessi conto dell’esistenza di questioni che non potevo realmente comprendere. Ingiustizie che non mi toccavano affatto. In una frase evidentemente plausibile, mi persi. È difficile da esprimere, ma è così che andò. A distanza di tempo provo ancora tristezza e disagio. Se devo pensare a qualcosa che all’epoca sentii davvero come diverso, penso a questo avvenimento. Non agli indigeni con il loro modo di non-vestire e i loro rituali, ma a quest’uomo simpatico, che parlava inglese, veniva da una grande città, vestiva come noi (se non meglio) e conosceva l’occidente. Non fui più a mio agio con lui e tolto un primo “Non c’entra niente”, non dissi più nulla a riguardo. Imparai qualcosa di nuovo su cosa significa vicino e lontano.

tribu-daniMan mano che ci si addentrava nella giungla i villaggi si facevano più incontaminati. Se nei primi girava qualche abito e le capanne avevano qualche cosa di familiare, andando avanti era tutto più alieno e al contempo più bello, nella sua armonia con la natura. Man mano che si procedeva verso l’interno della valle, le persone erano sempre più incuriosite da noi. Io ero sbalordita, non avevo mai visto qualcosa di simile. È stato davvero bello. Ed è stato unico. Mi ricordo che la sera si arrivava nei villaggi. Le casette trasudavano fumo dal tetto ed era tutto tinto di paglia e legno. L’entrata era puntellata di fiori e l’insieme dava l’idea di pulito. Le donne indossavano gonnelle di paglia (sali) e spesso avevano un seno diverso dall’altro. Magari uno molto lungo e piatto (causa l’allattamento di bambini e maiali) e l’altro piccolo e sodo come un palloncino appena gonfiato. Gli uomini si coprivano solo il pene inserendolo in una zucchina essiccata coltivata sui tetti delle case, e se lo tenevano ben all’insù. Le tribù si distinguevano proprio per la differenza di questi “copri pisello”. Alcuni addirittura lo tenevano in zucchine così grosse da metterci dentro all’occorrenza soldi e qualche cosa trovata nella foresta o comprata nel villaggio vicino.

La prima volta che vidi un Dani mi scappò da ridere, ma mi trattenni. Poi lo zucchino (holìm) diventò normale, come l’odore del grasso nero con cui si cospargevano il corpo e i capelli per proteggersi dal freddo, le zanne di maiale infilate nel naso e gli ornamenti di piume in testa. Alcuni uomini portavano un pugnale d’osso legato al braccio (che invidio ancora oggi). Le donne poi portavano il su, una grande borsa di fibre vegetali che dalla fronte pendeva dietro le spalle. Dentro tenevano di tutto compresi maialini e neonati.

irian-jaya-tribu-daniRicordo con grande piacere quando lasciavamo un villaggio per riprendere la camminata, e le persone ci seguivano accompagnandoci a lungo per poi sfoltire piano piano. Per ultimi rimanevano i ragazzini che ci scortavano divertiti fintato che non erano davvero tropo distanti dal villaggio. Mi capitò spesso di giocare con loro, ma sempre meno man mano che ci si addentrava nella foresta. Più ci spingevamo all’interno, più la distanza cresceva.

Ricordo una donna che sembrava vecchissima (come minimo avrà avuto l’età di mia madre…). Mi aveva preso in simpatia e mi prendeva sempre per mano. Le mancavano tre dita. Oggi è proibito, ma un tempo i Dani mozzavano le falangi o i lobi delle donne alla morte di un parente maschio per placarne lo spirito. Era nuda con una gonnella di fibre vegetali, quella delle donne sposate (jogal). Aveva la pelle come cartapesta e i pochi denti erano nero-rossastri. Ricordo con grande imbarazzo quando mi sentii costretta ad accettare il suo invito a partecipare a una rappresentazione dell’Ebe Akho, la grande festa del maiale. E’ una sorta di rituale di guerra, dove gli abitanti del villaggio si agghindano e mettono in scena la battaglia. L’evento principale è l’uccisione di un grande maiale; mentre la carne cuoce gli uomini e le donne ballano, gridano e cantano. Io ricordo solo che continuavo a correre in tondo con un pennacchio in mano e non vedevo l’ora che finisse. Però è un bel ricordo.

La valle del Baliem è un limen, una soglia. Le montagne alte fino a tremila metri l’hanno protetta dal resto del mondo per lungo tempo. Non credo che i Dani fossero poi molto diversi quando il signor Richard Archbold li scoprì nel 1938. Certamente lui era molto diverso da me. I Dani dal canto loro non conoscevano i metalli e neppure la ruota. Quando li ho visti io fumavano sigarette, sapevano della nostra esistenza e usavano (poco) la moneta. Non so come siano oggi, sarei curiosa di conoscere l’esperienza di altri viaggiatori. Ho letto su varie guide che ci sono diverse possibilità per chi è interessato a visitare questo pezzo di mondo. Per i più cauti gite in giornata con base Wamena (ci si arriva in aereoplano ed è da qui che si organizzano i trekking) e per i più navigati fino a 11 giorni per spingersi nel cuore della valle (indispensabili guida e portatori, spesso ci si organizza con altri turisti per amortizzare il costo) e vivere un’esperienza a pieno contatto con le tribù.  Dal canto mio tengo stretto il ricordo nella consapevolezza che ho avuto il privilegio di vedere qualcosa di noi che va scomparendo.

irian-jaya-daniA me rimangono i volti e l’odore delle persone. L’uomo che cercava di vendere 1 uovo, come fosse un grande tesoro e la ridicola frittata per 5 che ne venne fuori. Gli occhi sbarrati e curiosi di bambini come me. Le strategie che io e mia madre inventavamo per riuscire a fare pipì senza la folla intorno. Le mummie rattrappite, il mocciolo che colava dal naso di un Dani durante un pianto funebre. Le risate dei bambini con cui tentavo di giocare. Mi rimangono le emozioni e i ricordi, che hanno la stessa intensità e dolcezza del loro saluto che trascinavano a lungo con la voce tenendo ben salda la tua mano.

P.s. Nel 1961 il documentarista Robert Gardner, l’esploratore Michael Clark Rockefeller e l’etnologo Karl G. Heider, membri della Harvard-Peabody Expedition, andarono nella Valle del Baliem e vi fecero la prima ricerca etno-antropologica moderna. Gardner realizzò il rarissimo lungometraggio Dead Birds del 1963. Per chi volesse saperne di più: Making Dead Birds: Chronicle of a Film.

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