A melhor maneira de viajar è sentir.
Fernando Pessoa
Lisbon Story. In apertura, la soggettiva del protagonista-viaggiatore. Lo sguardo è il suo ed è il nostro, che legge l’invito a partire, e poi sul paesaggio e sulle città che scorrono fuori dall’automobile, dalla Germania al Portogallo. L’ascolto è il suo ed è il nostro, sulle stazioni radio che cambiano attraverso l’Europa. Lusingati, sedotti, soggettivamente “tirati in mezzo”, siamo in viaggio fin dall’inizio. Per arrivare nel cuore della capitale lusitana, a catturare i suoni di ogni cosa, la storia in forma di ritratto sonoro di Lisbona, dal rumore dei passi ai piccioni, ai bambini, al fado, alla corsa stridente del tram.
Viaggio su più strade. Il viaggio che dà vita alla trama semplice del film, invitati letteralmente, noi e il protagonista Philip Winter – fonico e rumorista -, da una cartolina che arriva da Lisbona, a raggiungere l’amico regista Friedrich Monroe (creduto morto nel precedente film di Wenders, Lo stato delle cose) per aiutarlo nella realizzazione del suo nuovo film, e a metterci dunque sulle sue tracce dopo aver scoperto che nella casa lisbonese lui non c’è; mentre ad accoglierci troviamo una piccola troupe cinematografica di aiutanti bambini (purezza, primordialità e in un certo senso pericolosità del mezzo).
Quindi il viaggio, facilmente poetico, che a partire da quello stesso appartamento, enorme e tipicamente portoghese, con tanto di pareti-azulejos, prende corpo e si rivela. Nella dimensione raccolta dell’interno – in cui da una finestra semiaperta, entra sempre la luce di Lisbona, e le note del fado chiamano nell’appartamento di fronte in cui si scoprono i Madredeus e ci si innamora della cantante Teresa Salgueiro.
E poi nell’andare fuori, nel muoversi per le vie, per lo più tra i quartieri popolari Alfama e Graça (sullo sfondo spesso la cupola del Pantheon nazionale portoghese), ma spingendosi anche più al centro della città (Praça Rossio con le fontane), incontrandone abitanti, personaggi, le loro voci e suoni – dalle donne indaffarate ai lavatoi all’arrotino al lustrascarpe -, assaporando, ascoltando, registrando la vita, e perdendosi nella quotidianità tra la spesa e un caffè sulla terrazza che guarda il Tejo; viaggio di immagini e suoni (pare soprattutto), nel cuore, cercato autentico, della capitale lusitana.
E misto a questi, il viaggio attraverso l’essenza, l’estetica, la storia del mezzo cinematografico, e la messa in discussione, ancora una volta, e in occasione dei 100 anni dalla nascita del cinematografo, dell’utilità stessa del fare cinema; con una qui vitale e positiva soluzione che si scioglie nel finale. Molti gli omaggi-citazioni (Dziga Vertov, Buster Keaton, Federico Fellini – morto l’anno prima e a cui il film è dedicato –, Manoel de Oliveira, che interpreta se stesso) e gli attrezzi del mestiere – telecamere, cineprese, strumenti per la registrazione del suono – che compaiono e agiscono nel film in tutta la loro fisicità.
L’espressione della realtà con la realtà stessa (cinema come “lingua scritta della realtà” ricordando Pasolini) è in Lisbon Story tratto poetico fondamentale. Lo vediamo noi che insieme a Winter, personaggio positivo, privo di elucubrazioni, impegnato in questioni concrete – una gamba rotta, l’amore per una donna, il suo lavoro “tecnico” che, mentre “le immagini sono in crisi” ci insegna un’altra strada per cogliere irrinunciabilmente il mondo -, viaggiamo in una città reale, poetica, emozionante insieme. Non così turbati dal dilemma perenne di chi fa un mestiere sospeso tra realtà e immaginazione (poeticamente splendidamente raccontato dalla presenza e dalla voce di de Oliveira) e dalla crisi creativa ed esistenziale dello stesso Friedrich, che ha deciso di creare una “biblioteca delle immagini non viste”, perché un’immagine non vista “è pura”, e così se ne va in giro e “tutto quello che ho ripreso l’ho ripreso alle mie spalle”.
Non molto turbati dicevo, perché seguendo Winter abbiamo già in noi la bellezza imparata, re-imparata o solo ri-esercitata, la realtà che parla attraverso la realtà, anticipatari della sensazione di ciò che il nostro protagonista pronuncia nel finale:
Perché perdere tempo per creare immagini spazzatura quando a metterci del cuore puoi farne di indispensabili, in magica celluloide? […] Le immagini in movimento possono ancora fare ciò per cui vennero inventate cento anni fa. Possono ancora dare emozioni.
E la cinepresa del regista, qui Friedrich Monroe, si riaccende.
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