La giovane donna (Yo Hitoto) avrà meno di trent’anni e si chiama Yoko. Cammina senza fretta per le strade, le librerie e le stazioni ferroviarie di una metropoli. La città si chiama Tokyo. La vediamo scorrere dalle finestre dei treni metropolitani di superficie e dalle vetrine dei caffè. Non è la Tokyo postmoderna della tecnologia, della moda, dei centri commerciali. E’ il quartiere di Jimbocho, dove si trovano ancora oggi le vecchie librerie. Una Tokyo lenta. Sorprendente, solare, impressionista. Intima.
Yoko cerca di fare la giornalista freelance. Per i suoi coetanei che vivono in altre metropoli di altri continenti non è difficile riconoscersi: lavoratori precari e malpagati che non riescono a a trovare un loro spazio nella società, talvolta più istruiti dei propri genitori ma con prospettive lavorative ed economiche inferiori. Yoko non sembra avere un chiaro progetto di vita e la sua personalità non è ben definita. Sembra confusa ma anche a suo agio e spenseriata mentre cammina da sola nella metropoli.
Yoko prova a integrarsi, a fare come gli altri. Dà lezioni di giapponese a Taiwan. Prova a lavorare nella fabbrica di ombrelli del suo amico taiwanese. E’ una donna non stravagante ma curiosa, libera ma non ribelle. Non c’è rabbia in lei, casomai spaesamento. Resta sempre sul lato luminoso della vita. La scopriamo anche determinata. Sceglie la solitudine invece di farsi imporre il matrimonio. Sceglie la libertà. Yoko aspetta un bambino ma non si sottometterà alle leggi della tradizione. Avrà un figlio ma non stravolgerà la propria vita. Lo crescerà per conto proprio, lontano dal padre. Yoko fa le sue scelte e non sarà lei ad essere scelta da altri.
E allora Yoko, nonostante le preoccupazioni dei genitori, continua a camminare per le strade di questa Tokyo del ventunesimo secolo, moderna e antica, città labirinto, universo di possibilità e di incontri che non si realizzano. Con l’aiuto di Hajime, giovane libraio con la passione dei treni, si mette sulle tracce di un compositore di musica classica. E la sua vita continua a scorrere, sempre uguale e sempre diversa. Come quei treni che non si fermano mai, dove la gente sale, condivide un pezzo di strada con altri passeggeri, e continua verso una destinazione ignota. Una vita di eterno presente, precaria ma serena, capace di cogliere la bellezza nelle cose quotidiane e di immergersi fino a identificarsi con la metropoli. Yoko è Tokyo.
Café Lumiere (珈琲時光 – Kōhī Jikō, 2003) è il film con cui il regista taiwanese Hou Hsiao-Hsien, autore anche di Milennium Mambo e Città dolente, ha reso omaggio al regista Yasujiro Ozu e al Giappone. E’ un film realista, capace di cogliere la poesia del quotidiano e alieno da ogni cinismo. E’ anche una riflessione sulla libertà, sulla bellezza, sulla solitudine. Molte le citazioni e riferimenti a Viaggio in Giappone, capolavoro assoluto di Ozu del 1953.
Il quartiere di Jimbocho, dove si svolge buona parte del film è famoso per il grande numero di librerie dove si possono trovare libri di ogni genere, nuovi e antichi, ma soprattutto usati e a basso costo. Luogo dunque consigliatissimo per i bibliofili e per chi desideri conoscere una Tokyo che solitamente non compare sulle copertine delle guide di viaggio. E’ un quartiere poco frequentato dai turisti e ospita anche numerosi ristoranti economici.
[alert type=”danger” dismiss=”no”]Dove dormire a Jimbocho, Tokyo:
Hotel Saku Ren Jimbocho
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