Palestina: Dheisheh e i campi profughi di Betlemme

Questo articolo fa parte del viaggio di Davide in Israele e Palestina. Leggi l’itinerario completo qui »

Come nascono qui i campi profughi? Prima c’era la terra di Palestina, che sulle carte non è mai stata una nazione. Fino al 1914 questa terra fece parte dell’Impero Ottomano, qui convivevano la popolazione araba e una minoranza di ebrei. Dopo la seconda guerra mondiale, quando la Gran Bretagna annunciò che si sarebbe ritirata dalla regione fu proclamato immediatamente lo Stato di Israele.

Nel 1947 in quel pezzo di terra vivevano oltre un milioni di palestinesi e alcune centinaia di migliaia di ebrei. La nascita dello Stato di Israele fu considerata da parte del mondo arabo una provocazione e un atto di forza inaccettabili e portò alle guerre del 1956, 1967 e 1973, dove Israele, più forte e organizzato militarmente, annientò gli avversari.

Nelle controffensive Israele si allargò sempre di più fino a occupare quasi tutta la striscia palestinese e già solo nel 1949 più di un milione di palestinesi erano stati forzati ad abbandonare le proprie case, occupate dallo stato nascente. Sono loro, questo milione (poi diventati milioni) di persone che sentite chiamare profughi.

Infatti la prima ondata di palestinesi che videro abbattere le proprie case e dovettero abbandonarle si sistemarono in Cisgiordania, nella striscia chiamata oggi West Bank, in attesa -così era stato promesso loro- di tornare a casa. Piantarono le tende nei campi vicini alle città, poi quelle tende diventarono casette, e quelle capannine si trasformarono in vere e proprie case in cemento, che man mano si allargarono.

Quei campi, che dovevano essere momentanei, divennero da tenda dei nonni a luogo di nascita dei nipoti: infatti l’attesa non è mai finita, le guerra del 1967 (la cosiddetta guerra dei sei giorni) e le successive confermarono la superiorità militare di Israele e la sconfitta dell’alleanza araba.

Voi direte: ma che c’entrano i fatti di 40 anni fa con oggi? C’entrano eccome. Prima di tutto, nelle città palestinesi ancora oggi sentirete parlare di “Right of return”, il diritto al ritorno. Si parla proprio di questo, nonostante il passaggio di generazioni le famiglie sfrattate dalle loro case anche 50 anni fa, nonostante si siano costruite una vita nei campi, attendono il ritorno a casa.

Campi profughi Palestina
Foto di Tijen Erol (CC)

Simbolo di tutto questo è una chiave appesa al collo, che vi capiterà di vedere molto spesso: chi abitava dove oggi ci sono gli alberghi moderni di Tel Aviv, chi aveva la casa dove oggi atterrano gli aeroporti a Ben Gurion, e così centinaia di migliaia di famiglie. Quella che al visitatore sembra ormai una cosa impossibile per loro è giustizia e atto di fede: non vogliono rinunciare a ciò che gli è stato strappato con la violenza.

Così, ancora oggi, la storia sembra ripetersi. Israele costruisce insediamenti illegali dei coloni in terra palestinese, i cui abitanti vengono cacciati dalle case in un processo che non ha mai fine. Restano le tensioni e un odio che ha radici negli abusi della storia.

C’è un modo però oggi di capire meglio e vivere direttamente questa realtà: infatti alcuni campi profughi, ormai diventati piccoli paesi, nel Territorio Palestinese accolgono viaggiatori interessati, li ospitano e permettono di vedere e vivere la loro quotidianità. I campi profughi non hanno una collocazione geografica unica (nord piuttosto che est o ovest) ma sono sparsi ovunque vicini alle principali città della Palestina: oggi alcuni sono ormai diventati delle vere e proprie estensioni delle città.

Come accennavamo nell’ultimo articolo su Betlemme, in questa zona sono tre i campi più importanti: Aida, Deisheh e Al-Azzah. Tante case nate una accanto all’altra, in maniera un po’ casuale, abitazioni che si sono allargate man mano che aumentava il numero di familiari. In questa parte è possibile conoscere davvero il cuore della Palestina.

Il campo di Dheisheh, per esempio, è una realtà davvero interessante da visitare e in cui stare: comunità dove tutti conoscono tutti, questo piccolo paese all’interno della città Betlemme, è un esempio di accoglienza e di resistenza (non armata). Moltissimi ragazzi lì dentro lavorano, nonostante i soprusi dell’esercito israeliano e nonostante le incursioni notturne, per creare cultura e relazioni tra i ragazzi del campo. Teatro, musica, scuola e tantissimi altre attività a cui si può partecipare e, volendo, contribuire se si ha la possibilità di fermarsi per più di qualche giorno.

dheisheh,  betlemme
Foto di Andrea Moroni (CC)

Ma anche fare un passaggio, chiedere ospitalità per due/tre notti in una realtà così, permette di vedere la Palestina più nascosta, quella di cui spesso diffidiamo perché non conosciamo, quella che non ci viene raccontata in Occidente se non nel modo sbagliato e abitudinario. Passare da un campo profughi, contattare le associazioni e le organizzazioni non governative che ci lavorano dentro è un modo per far fare un salto di qualità al proprio viaggio. Non solo i luoghi bellissimi di questa terra martoriata, non solo la Terra Santa, ma anche il cuore sanguinante della Palestina che continua però a produrre vita e voglia di costruire futuro.

Per riuscire a vivere appieno un’esperienza di questo tipo è necessario considerare:

  • la disponibilità ad adattarsi, richiesta quando si è ospitati in famiglie magari numerose;
  • sapere che vivere in un campo profughi in Palestina è convivere con la possibilità quotidiana di incursioni dell’esercito israeliano, soprattuto di notte. Quindi è necessario avere la minima capacità di stare sotto pressione. Dovesse succedere, state tranquilli, il vostro passaporto garantisce per voi.

Per chiedere ulteriori informazioni ed entrare in contatto con associazioni o ong che vi permettano questa esperienza scriveteci o contattate l’Associazione Casa per la Pace Milano.

Il viaggio di Davide in Israele e Palestina continua, a breve il prossimo articolo »

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