Vivere a Tarlabaşi, il quartiere curdo di Istanbul

Agya Sofya, Santa Sofia, la basilica romana, poi cattedrale, poi moschea. Parte qua il viaggio dentro Istanbul, la città che cambia. Sono salito sulla tranvia moderna e lucente fuori dall’aeroporto e in meno di un’ora mi ha lasciato qui, in uno spiazzo enorme tra alberi e fontane e palazzi millenari. Sono nella penisola a sud, lato europeo, nella Istanbul monumentale e del turismo dell’indimenticabile: Santa Sofia dalle enormi colonne, il Palazzo del Sultano, il Bazaar e tutto lo splendore della Roma d’Oriente.

Non devo fermarmi qua. Scendo con una serpentina al mare, arrivo al ponte di Galata costeggiato da pescatori e dal traffico di battelli. Un sacco di volti dall’Asia centrale, chioschini ovunque, dagli altoparlanti informazioni turistiche e i canti atonali dei muezzin in sovrapposizione; a destra si vede l’Asia dall’altra parte del Bosforo, un milione di minareti appuntiti.

Passo il ponte e inizio la salita nel quartiere di Pera, antica colonia genovese. I palazzi ottocenteschi in granito si ammassano uno sull’altro, le gallerie d’arte e gli hotel lussuosi aprono le loro porte nei vicoli ombrosi e umidi. Dalla tozza torre di Galata parte la strada dei negozi di strumenti musicali, la mia preferita. Non tutti sanno che è tipico della città orientale avere strade dedicate alla vendita di un solo tipo di merce: la via degli strumenti musicali, la via degli argenti, quella degli antiquari, il portico sotto il quale si vendono solo scarpe. Con l’ultimo negozio di baglama (chitarra turca a sette corde) e di piatti in ottone per batteria (di cui la Turchia è rinomata e storica produttrice) finisce la salita.

Inizia Istiklal Caddesi, il viale della rivoluzione. È lo stradone pedonale che taglia la collina da sud a nord. Enormi negozi e catene multinazionali, busker per strada, souvenir scadenti, bar che offrono birre, bar che offrono narghilè, kebabbari. Ai lati dello stradone, una miriade di viuzze oscure con locali notturni e finestrelle con transessuali che ammiccano. Camminando verso nord, dopo venti minuti arrivi all’incrocio di Galatasaray, un antico liceo privato situato in una villa gialla sulla avenue.

È il momento della scelta: a dritto si prosegue per Taksim, piazzale sovietico dei raduni popolari, dei taxi collettivi e degli autobus che si smistano nella infinità della Istanbul residenziale. A destra, si scende per Cihangir, quartiere bohémien dalle case di legno, delle botteghe degli artigiani di gioielli, dei venditori di tappeti e dei gatti grassi stesi sui tappeti in vendita. Qui vivono artisti e attori, nei loft all’ultimo piano con vista dall’alto sullo scintillio del Bosforo.

A sinistra si scende verso Tarlabaşi.

Tarlabaşi è separata dalla zona dei negozi e dei bar da un boulevard a quattro corsie trafficassimo a tutte le ore del giorno e della notte che collega il traffico da piazza Taksim a un ponte che taglia il Corno d’Oro. Per entrare nel quartiere bisogna passare sotto ad un cavalcavia.

La differenza è notevole rispetto alle zone che abbiamo appena attraversato: non ci sono negozi di souvenir, anzi a dirla tutta non ci sono proprio negozi, se non qualche alimentari con dei frigoriferi e le sigarette. I marciapiedi sono rotti, l’asfalto è crepato e ci sono delle buche al posto dei tombini. I palazzi hanno facciate povere e annerite, e spesso i piani più alti dei palazzi non sono finiti. Alcuni edifici sono circondati da transenne alte e nere, altri edifici sono crollati e le macerie sono rimaste lì, nessuno ha pulito o ricostruito. Si vedono tanti cani randagi e pochi gatti.

Tarlabaşi
Tarlabaşi | Marlon Zigante

Siamo a trecento metri in linea d’aria da Cihangir, eppure sembra essere passati da Parigi a Gaza. I bambini giocano a piedi nudi per strada, la palla rotola sempre giù, essendo molto ripide le strade di quartiere. D’inverno le strade ghiacciano e le salite diventano impraticabili.

Tarlabaşi è un ghetto, è l’unico vero ghetto che abbia visto finora nella mia vita: è un quartiere a maggioranza curda, una popolazione originaria del confine sud della Turchia, che non gode di buona reputazione nella comunità turca: sappiamo essere da anni in corso una guerra tra esercito nazionale turco e le forze indipendentiste del PKK. Non conosco davvero a fondo la questione, ma ho subito notato che Il quartiere era circondato da camionette blindate della polizia sul boulevard a nord e nella piazza in fondo alla discesa a sud.

Quando racconto ai miei amici turchi che ho vissuto per un anno a Tarlabaşi, molti dicono che sono fortunato a essere ancora vivo, che è un posto pericoloso. Altri non dicono niente ed ho come l’impressione che vogliano evitare di iniziare discorsi conseguenti sulla questione curda, che comunque liquiderebbero con un “voi non potete capire”. Io allora la butto su questioni pratiche, comprensibili per tutti. Un affitto costava un terzo che a Cihangir, e per andare a ballare la sera su Istiklal ci mettevo cinque minuti a piedi. Vivevo con due ragazze tedesche, biondissime e spesso ubriache, pure a loro nessuno ha mai torto un capello.

Tarlabaşi
Tarlabaşi | Marlon Zigante

Tarlabaşi offriva la domenica mattina uno dei mercati all’aperto più forniti ed economici della città, e nella parte bassa ci sono dei ristoranti decenti dove si poteva mangiare con due euro. I vicini di casa salutano sempre e offrono dolci e benedizioni. Nei seminterrati si intravedono sale da tè con pavimenti di piastrelle bianche e sedie di plastica, dentro solo uomini che fumano e un televisore che trasmette partite del campionato turco, sempre.

Io avevo una casa del tè preferita a qualche isolato da casa e ci andavo a passare il tempo a guardare gli uomini giocare a backgammon. Ovviamente erano posti dove potevi incrociare qualche storia di mala, di guardie e ladri, ma oltre al fatto che il turco è una lingua difficile, le storie spesso si perdevano in traduzioni surreali e omertà alle mie domande più scomode. Ma non volevo sembrare un impiccione, andavo lì, bevevo il tè, guardavo un primo tempo di Bursaspor – Kasimpasa, salutavo ed andavo a casa. Un paio di volte sono stato fermato dalla polizia appena uscito dal bar: facevano domande, chiamavano la centrale, non parlavano inglese. Io ripetevo loro solo Yabanci (che vuol dire sono straniero) fino a che non mi lasciavano andare con sguardi torvi. Una volta Taruk, il boss della casa del tè che frequentavo, durante una mia perquisizione da parte della polizia, uscì dal bar e disse una cosa tipo “Lui è italiano, è con me” e mi lasciarono andare subito, senza neanche guardarmi i documenti.

A maggio inizia la stagione dei matrimoni e le strade del quartiere si riempiono di musica: il musicista (di solito è uno solo) porta un impianto enorme, lo piazza in mezzo a un vicolo, con la tastiera manda la base e suona rapide melodie serpeggianti, alternando con parti cantate nella quale porge auguri allo sposo, esalta la bellezza della sposa e ringrazia tutti quelli che hanno contribuito con doni al matrimonio (musica tipo Omar Souleyman, che infatti è siriano curdo ). Alcuni uomini anziani suggeriscono al musicista cosa dire nella prossima strofa. Le donne ballano. Le celebrazioni possono durare giorni, con più matrimoni contemporaneamente e dunque diversi soundsystem anche molti vicini tra loro. La musica si interseca con i canti del muezzin, c’è un casino esagerato e l’aria fresca sale dal mare e porta odori di primavera.

Quando scoppiò la rivolta di Gezi Park, abitavo a 500 metri in linea d’aria da Piazza Taksim. La sera del giorno in cui la polizia sgomberò con le maniere dure l’accampamento dei manifestanti nel parco non si poteva stare in casa perché entravano dalle finestre i gas lacrimogeni. Uscito per strada, vidi per i vicoli tutti i ragazzini, solitamente sorridenti e presi dal gioco del pallone, con il volto coperto e con in mano bottiglie di benzina. Accatastarono macchine e motorini nel mezzo dello stradone che separava il centro con Tarlabaşi; si sviluppò un rogo con fiamme alte come palazzi, una barricata infuocata. I ragazzini urlavano come animali impazziti alle fiamme: era il loro grido di vendetta. La violenza durò solo una notte.

Tarlabaşi
Tarlabaşi | Marlon Zigante

Nei giorni successivi niente prese più fuoco. Le proteste politiche in piazza Taksim rimasero accese, ma gli scontri si spostarono a nord della piazza, dove gli ultras anarchici del Besiktas tenerono dura guerriglia alle forze di polizia. A Tarlabaşi, quasi subito, i bambini tornarono a giocare per strada e come forma di protesta ogni giorno alle 18 tutti si affacciavano alla finestra e percuotevano delle pentole con mestoli di legno, gridando e fischiando in un enorme sferraglio metallico per una mezzora. Niente di più. Qualche amico della casa del tè mi disse “questa protesta non serve a nulla. La gente è dalla parte di Erdogan”.

Erdogan prometteva di abbattere Tarlabaşi, e di farne un quartiere con abitazioni di lusso. Gli abitanti attuali sarebbero stati mandati in quartieri popolari in costruzione ai margini della città, delle banlieue praticamente. Io non so come stia oggi Tarlabaşi; mi manca moltissimo il calore della gente e quell’architettura post-atomica. Oggi sono andato su Google Maps: non c’è street view per le strade di Tarlabaşi, al contrario di tutto il resto del centro di Istanbul. L’ho preso come un buon segno. Nei miei ricordi c’è un gran casino.

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